“Dialettando” , la rubrica di Lino Montanaro propone tutti i giovedì proverbi e modi di dire lucerini, tramandati di generazione in generazione, per non dimenticare le origini della nostra amata Lucera.
DIALETTANDO 201
A Lucera non si dice “Non c’è possibilità di modificare una situazione negativa, pertanto bisogna farsene una ragione” ma si dice
– “ÉJE ÀREGHE E TE LE L’AJA GGNOTTE “
A Lucera non si dice “Esiste una certa difficoltà nello scegliere o giudicare quando mancano le conoscenze e gli strumenti per farlo “ ma si dice
– “A’ SCÚRDE TUTT’I FÈMMENE S’ASSEMÈGGHJENE”
A Lucera non si dice “Rispondendo a caso ha dato una risposta azzeccata” ma si dice
– “TÍRE A MMÁNGHE E CCOGGHJ E A DDRITTE!”
A Lucera non si dice “Smettila di darti tante arie!“ ma si dice
– “NEN SAPÉVE CHE TENÍVE TÁNDA PARÍNDE A NAPELE! “
A Lucera non si dice ” Capita che, dopo aver fatto un favore, la persona che lo ha ricevuto ha pure qualcosa da ridire” ma si dice
– “DOPPE CH’È DÍTTE SSÌ, È DÌ PÚRE SISSIGNÓRE”
A Lucera non si dice “È una persona che vive nel disordine “ ma si dice
– “A NDÒ CÁCHE, LÁSSE ”
A Lucera non si dice “Non voglio fare polemica e dire quello che non penso” ma si dice
– “NEN ME VOGGHJE NGANNÀ L’ÀNEME”
A Lucera non si dice “Cerchiamo di dare il giusto valore alle cose” ma si dice
– “NN’AMMESCKÁME CÈNERE E PPÁNNE LÚRDE”
A Lucera non si dice “Quando deve fare qualcosa, se la prende lunga“ ma si dice
– “SE MÈTTE A ANNE E MÍSE SCURDÁTE”
A Lucera non si dice “È uno scapestrato, dedito all’ozio e alla dissolutezza “ ma si dice
– “È NU CIUCCE SÈNZA CAPÈZZE”.
REGOLE DI PRONUNCIA
Il dialetto lucerino, come del resto ogni dialetto, ha le sue ben precise e non sempre semplici regole di pronuncia. Tutto questo, però, genera inevitabilmente l’esigenza di rispettare queste regole non solo nel parlare, ma anche e soprattutto nello scrivere in dialetto lucerino. Considerato che il fine di questa rubrica è proprio quello di tener vivo e diffondere il nostro dialetto, offrendo così a tutti, lucerini e non, la possibilità di avvicinarvisi e comprenderlo quanto più possibile, si ritiene di fare cosa giusta nel riepilogare brevemente alcune regole semplici ma essenziali di pronuncia, e quindi di scrittura dialettale, suggerite dall’amico Massimiliano Monaco.
1) La vocale “e” senza accento è sempre muta e pertanto non si pronuncia (spandecà), tranne quando funge da congiunzione o particella pronominale (e, che); negli altri casi, ossia quando la si deve pronunciare, essa è infatti sempre accentata (sciulutèzze, ‘a strètte de Ciacianèlle).
2) L’accento grave sulle vocali “à, è, ì, ò, ù” va letto con un suono aperto (àreve, èreve, jìneme, sòrete, basciù), mentre l’accento acuto “á, é, í, ó, ú” è utilizzato per contraddistinguere le moltissime vocali che nella nostra lingua dialettale hanno un suono molto chiuso (‘a cucchiáre, ‘a néve, u rebbullíte, u vóve, síme júte), e che tuttavia non vanno confuse con una e muta (u delóre, u veléne, ‘u sapéve, Lucére).
3) Il trigramma “sck” richiede la pronuncia alla napoletana (‘a sckafaróje, ‘a sckanáte).
4) Per quanto riguarda le consonanti di natura affine “c-g, d-t, p-b, s-z” è stata adottata la grafia più vicina alla pronuncia popolare (Andonije, Cungètte, zumbà) quella, per intenderci, punibile con la matita blu nei compiti in classe.
5) Per rafforzare il suono iniziale di alcuni termini, si rende necessario raddoppiare la consonante iniziale (pe bbèlle vedè, a bbune-a bbune, nn’è cósa túje) o, nel caso di vocale iniziale, accentarla (àcede, ùcchije).
6) Infine, la caduta di una consonante o di una vocale viene sempre indicata da un apostrofo (Antonietta: ‘Ndunètte; l’orologio a pendolo: ‘a ‘llorge; nel vicolo: ‘nda strètte).
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