Da qualche anno, l’Italia ha maturato un innegabile diritto di cittadinanza nel panorama golfistico internazionale grazie soprattutto a due circostanze, più o meno concomitanti: la prima squisitamente agonistica, la seconda squisitamente organizzativa.
Innanzitutto la presenza, ormai stabile, di un proprio giocatore, Francesco Molinari, nell’elite del circuito professionistico internazionale, culminata nella vittoria, nel luglio dello scorso anno, a Carnoustie, in Scozia, dell’Open Championship, uno dei 4 tornei maggiori (detti, infatti, “majors”). E’ stata la prima volta, nella secolare storia del golf, che un italiano si è aggiudicato uno dei suddetti majors. Semplificando grossolanamente, una vittoria che si potrebbe paragonare a quella di un tennista a Wimbledon. Inoltre, nel settembre successivo, lo stesso Molinari si è reso protagonista di un raro exploit, durante la Ryder Cup (competizione a squadre, a cadenza biennale, Europa vs. USA, di cui si dirà in seguito) aggiudicandosi tutti i propri 5 matches. Molinari ha raggiunto il n. 5 del ranking internazionale (OWGR) e, attualmente, è il giocatore n. 7 del mondo.
La seconda circostanza è rappresentata proprio dall’organizzazione dell’evento Ryder Cup del 2022, che è stato assegnato al “Marco Simone Golf & Country Club” di Roma. La Ryder Cup è un evento mediaticamente mastodontico, con un risonanza ed un’audience che si avvicinano, specie per le nazioni tradizionalmente più golf-oriented, Stati Uniti inclusi, a quelle di un SuperBowl o di una finale NBA. Inoltre, vede la massiccia presenza fisica di fiumi di spettatori provenienti, oltre che da tutta Europa, da oltreoceano. Chi scrive è stato personalmente testimone, nel 1997, della prima Ryder Cup giocata nell’europa continentale, a Valderrama, in Spagna (precedentemente, dal 1921, il quadriennale appuntamento europeo si era sempre tenuto nelle isole britanniche) e un buon 20-25% dei circa 200.000 spettatori che durante i giorni di pratica e competizione circondavano le 18 buche del percorso andaluso, erano di nazionalità statunitense. Per inciso, e mi si scusi l’irresistibile sciovinismo, in quella occasione, il golf italico registrò un’altra impennata qualitativa, con il grande Costantino Rocca che battè seccamente, nel singolo domenicale, un giovane (ma già dominante) Tiger Woods.
Tutto ciò premesso, e venendo a considerazioni più “territoriali”, la sopracitata “concomitanza” diventa un’accoppiata mediatica che può facilmente trasformarsi in una opportunità che la Capitanata in generale e la Puglia Garganica in particolare, non può lasciarsi sfuggire.
E’ da tempo che lo scrivente sostiene che, se è vero che investire nella realizzazione e nella successiva gestione di un campo da golf potrebbe essere, preso di per sé, un business rischioso, è altrettanto innegabile che sarebbe invece, un tale arricchimento dell’attrattività del territorio, che l’intera filiera dell’offerta turistico/alberghiera ne beneficerebbe sotto almeno 2 profili. In primis c’è una grossa fetta di turismo internazionale di livello medio-alto che, se il territorio non offre almeno un campo nelle immediate vicinanze, non lo prende nemmeno in considerazione nella pianificazione del proprio itinerario vacanziero. Inoltre il Gargano, che rappresenta il bacino più consistente di recettività turistica della provincia, attualmente satura tale recettività, se va bene, solo 1 mese all’anno, la impiega per uno scarso 40-50% per altri 2-3 mesi all’anno e la lascia completamente inutilizzata per gli altri 8-9 mesi: un andamento che crea forti diseconomie. Tutto questo quando, godendo di un clima che consentirebbe di giocare 12 mesi all’anno (contrariamente al Nord Europa), il golf contribuerebbe decisamente alla destagionalizzazione della domanda turistica la quale, adeguatamente fusa con le attrattive culturali/gastronomiche/enologiche, potrebbe impiegare brillantemente quella recettività “fuori-stagione” attualmente inutilizzata.
E’ qui che, per le ragioni microeconomiche spiegate sopra, invece del singolo imprenditore, dovrebbe intervenire un associazione di imprenditori del settore turistico che, coalizzandosi/consorziandosi, renderebbero innanzitutto l’investimento nella realizzazione/gestione della struttura meno impattante ma, soprattutto, compenserebbero l’eventuale non autosufficienza economica, presa di per sè, della struttura stessa, con il vantaggio indiretto apportato alla redditività della propria attività originaria e principale.
Nel caso l’impreditoria privata dimostrasse poca propensione all’associazionismo virtuoso volontario, potrebbe persino profilarsi l’opportunità di un intervento pubblico (magari a livello amministrativo decentrato, regionale).
Si veda l’esempio della Costa del Sol in Spagna o di alcune aree costiere del Marocco che hanno esteso a tutto l’anno le proprie lucrose attività connesse al turismo, anche e soprattutto grazie all’investimento nell’offerta golfistica.
Va inoltre sfatato il luogo comune che la realizzazione di un campo da golf crei necessariamente un cattivo e sproporzionato impatto ambientale; sull’argomento si consiglia la lettura del seguente articolo , che approfondisce l’argomento senza pregiudizi eco-fondamentalisti.
Ed infine, insistendo sul profilo bio-sostenbile, di cui la cultura “chilometro zero” è stretta parente, concludo chiedendo: cosa c’è di più paradisiaco, dopo 18 buche “vista-adriatico”, di un caciocavallo podolico accompagnato da un calice di Cacc’e Mmitte DOC?