Capitolo 4
I fidanzati
Una domenica di fine ottobre, Pasquale e il suo amico Gino parteciparono a una festa di compleanno.
Il pomeriggio della domenica, tutti quelli che non avevano una ragazza fissa s’incontravano al bar De Chiara e si scambiavano le informazioni sulle feste, sui compleanni, sul giro delle ragazze e sui club dove si poteva andare a ballare anche senza essere socio. Dopo chiacchiere e valutazioni, ognuno decideva come passare il resto della domenica e, se proprio non s’individuavano opportunità, si restava al bar a giocare a bigliardo e ad aspettare il ritorno degli amici per sapere delle feste, di come era andata la serata e dei vari “movimenti”.
Tutto si svolgeva sotto l’occhio vigile di Sandrino De Chiara il quale faceva i suoi commenti su quelli che andavano via (“I belli hanno da fare stasera”; “I soliti imboscati hanno trovato dove andare”) e su quelli che restavano (“State proprio in bassa fortuna”).
Fu così che Pasquale e Gino seppero di una festa di compleanno e che alla festa erano state invitate da Giovanna, la festeggiata, Tilde e Anna due belle ragazze sulle quali avevano puntato gli occhi.
Pasquale disse a Gino: “Presentiamoci anche senza essere invitati. Appena entriamo, salutiamo e facciamo gli auguri a Giovanna che conosciamo di vista. Non credo che ci dirà che la nostra presenza non è gradita. Nel frattempo diamo un rapido sguardo per vedere se ci sono Tilde e Anna e, se ci sono, restiamo, dopo aver ringraziato Giovanna per l’ospitalità e la bella festa. Altrimenti andiamo via subito”.
Gino aggiunse: “Però dobbiamo presentarci solo quando la festa entra nel vivo. Così il piano può andare bene”.
Pasquale e Gino andarono alla festa di compleanno, si divertirono e “agganciarono” Tilde e Anna. Al termine della festa, le accompagnarono a casa a piedi, perché a quei tempi erano pochissimi i giovani che avevano un’auto. E seppero che abitavano nella stessa strada. Tutti e quattro si congedarono con un “arrivederci alla prossima”.
Euforici, i due giovani raggiunsero il bar De Chiara dove ragionarono sul da farsi. Essi convennero che l’indomani mattina si sarebbero presentati davanti al Liceo “Ruggero Bonghi”, la scuola frequentata dalle ragazze, per iniziare un corteggiamento incalzante. Difatti, la mattina incontrarono le ragazze, le quali a prima vista mostrarono sorpresa per quella presenza, ma nello stesso tempo non nascosero la contentezza per l’incontro. Pasquale e Gino, incoraggiati dalla gentilezza e dai sorrisi delle ragazze, decisero che il “marcamento” sarebbe continuato anche la sera con il passaggio davanti alle loro case.
Era appena imbrunito e una sottile pioggerellina rendeva uggiosa la serata, quando Pasquale e Gino s’incontrarono al bar De Chiara. Salutarono gli altri ragazzi che frequentavano il bar e si appartarono a confabulare sul da farsi, suscitando curiosità fra gli amici più stretti, i quali iniziarono a fare battute e a sfottere sulla loro capacità di “conquistare” ragazze.
Anche Sandrino disse la sua: “Non fanno niente dalla mattina alla sera, non studiano e pensano solo a dare fastidio alle brave ragazze!”.
Intorno alle diciannove Pasquale e Gino lasciarono il bar e si diressero verso le case delle ragazze. Camminando, decisero che sarebbero rimasti in strada sotto i balconi delle abitazioni delle ragazze al massimo per una mezz’oretta. Speravano che le ragazze, per un motivo o un altro, si facessero vedere.
Gino a tal proposito commentò: “Se non si fanno vedere, vuol dire che: o non accettano il corteggiamento e, quindi, hanno deciso di non affacciarsi; oppure vogliono ”tirasi la calzetta” e vedere se e quanto noi ci teniamo a loro. Se invece si fanno vedere, magari anche più volte, allora vuol dire che già domenica noi andiamo a ballare con loro”.
Raggiunsero la strada, non lunga più di cento metri che si trovava nel centro storico, e ognuno si fermò in prossimità del balcone della casa della ragazza corteggiata. Ogni cinque minuti Pasquale e Gino si avvicinavano per parlarsi e fare considerazioni.
Erano passati venti minuti circa, quando Gino, eccitato, si avvicinò a Pasquale e gli riferì che Anna da dietro i vetri della porta del balcone lo aveva salutato con un gesto della mano.
Pasquale, invece, fece notare a Gino che in fondo alla strada c’era un uomo sulla quarantina che passava e ripassava davanti a una casa a piano terra, camminando in punta di piedi, quasi a non voler far rumore, per non essere visto.
Fu in quel momento che sull’uscio di quel basso si affacciò una signora anziana la quale, rivolgendosi all’uomo che si trovava a pochi metri, lo apostrofò dicendogli: “E’ inutile che passi e ripassi davanti a questa casa. Te lo dico ancora un’ultima volta; io non ti darò mai mia figlia in moglie. Te ne devi andare e qui non devi più venire. Se continui a darci fastidio, vado dai carabinieri”.
Pasquale e Gino furono colpiti dalla durezza con cui l’anziana signora aveva gridato quelle parole. E, appena la signora si rinchiuse in casa, si avvicinarono all’uomo, forse in segno di solidarietà, visto che anche loro sostavano davanti alle case di ragazze cui erano interessate o, forse, perché semplicemente incuriositi dall’accaduto.
Peppino, così si chiamava l’uomo che era stato redarguito, offeso e arrabbiato nello stesso tempo, aveva bisogno di sfogarsi e di parlare con qualcuno. Perciò, appena fu avvicinato dai due giovani, come un fiume in piena raccontò la sua triste vicenda.
Per prima cosa, chiarì che lui amava Mariuccia, una signorina della sua stessa età, e dalla stessa era ricambiato. Ma la loro storia d’amore era contrastata dalla madre della ragazza che si opponeva per interessi e rancori, vecchi di anni, che riguardavano le rispettive famiglie.
Poi aggiunse che la madre della ragazza, di cui non voleva neanche proferire il nome per quanto era cattiva, teneva prigioniera Mariuccia. Le vietava di uscire e perfino di affacciarsi alla porta di casa. Così che potevano scambiarsi poche parole o lanciarsi qualche bigliettino solo raramente, quando per un motivo o per un altro saltava la stretta vigilanza della madre. Confessò, inoltre, che con gli anni si erano affievolite, se non erano addirittura venute meno, le speranze di convincerla ad acconsentire al matrimonio della figlia. Perciò era pronto a organizzare la “scappata” con la sua innamorata, appena Mariuccia gli avesse dato il consenso e se ne sarebbe presentata l’occasione.
Peppino cercava di contattare Mariuccia da settimane per sottoporle i suoi propositi, ma nessun contatto sin a quella sera fu possibile. Proprio in quel periodo il controllo si era fatto asfissiante. Forse perché la madre, notando l’accresciuta insistenza di Peppino nel ricercare un contatto con sua figlia, era arrivata alla conclusione che i due stavano preparando qualche “brutto scherzo”.
Pasquale e Gino decisero di aiutare Peppino e si offrirono di essere suoi ambasciatori. Gino, rivolendosi a Peppino, dopo uno sguardo d’intesa con Pasquale, disse: “Senti non c’è bisogno che sia tu a passare e ripassare davanti alla casa di Mariuccia, suscitando la reazione della madre. Lo facciamo noi poiché per le prossime sere saremo qui in questa strada a “marcare” i balconi delle ragazze che ci interessano. La madre non si preoccuperà nel vedere passare davanti alla sua casa due ragazzotti che poco hanno a che fare con sua figlia. Noi ti segnaleremo se la via è libera, ovvero se dietro i vetri della porta di casa c’è la tua fidanzata e non sua madre. Inoltre, puoi dare a noi i tuoi bigliettini e, se possiamo, li lanceremo noi a Mariuccia”.
Peppino fu contentissimo dell’aiuto insperato e diede loro appuntamento per la sera successiva.
La sera dopo, Pasquale e Gino, prima di andare all’appuntamento, passarono per il bar De Chiara. Qui raccontarono ad alcuni loro amici l’esperienza vissuta la sera prima e parlarono pure dell’impegno che si erano assunto per aiutare Peppino.
Anche Sandrino ascoltò e, mentre mostrò simpatia per Peppino, disse ad alta voce: “Su queste cose non ci si può divertire. Perché non vi fate i fatti vostri? Per come siete fatti voi, potete solamente combinare guai”.
All’ora stabilita raggiunsero Peppino che già si trovava appostato all’angolo della strada, nascosto quanto bastava per non essere visto. Dopo essersi salutati, Pasquale e Gino iniziarono a fare la ronda lungo la strada.
Non passarono pochi minuti e questa volta Tilde comparve e si trattenne per un po’ di tempo davanti ai vetri della porta del balcone. Salutò Pasquale, il quale pensò che a quel punto potesse dare una mano a Peppino per il resto della serata.
Gino, una decina di minuti dopo lo raggiunse, dopo aver salutato Anna.
I due passarono e ripassarono davanti all’abitazione di Mariuccia, ma l’unica figura che intravedevano attraverso i vetri era quella della madre.
A fine serata, Peppino era molto sfiduciato e pensò che la sua Mariuccia potesse non esserci o essere ammalata, dato che non si era vista per niente.
Pasquale e Gino, nonostante avessero ottenuto da Tilde e Anna la promessa di andare a ballare la domenica pomeriggio, ritornarono la stessa sera a fare compagnia a Peppino. E ritornarono le altre sere, forse per solidarietà, forse per trascorrere una serata diversa, forse perché la vicenda li intrigava.
Per molte sere gironzolarono davanti alla casa di Mariuccia, ma della signorina nemmeno l’ombra.
E con il passare delle sere aumentavano le preoccupazioni e i cattivi pensieri di Peppino, il quale iniziava a credere che Mariuccia non si lasciasse vedere non perché fosse ammalata ma perché aveva deciso di troncare il fidanzamento, accettando l’imposizione della madre.
Fu a quel punto che Pasquale ebbe un’idea. Rivolgendosi a Gino disse: “Noi dobbiamo fare un po’ di casino davanti alla casa di Mariuccia, dobbiamo gridare a più non posso, far finta di litigare e di prenderci a botte, sperando che il frastuono possa far uscire dalle case un po’ di gente. Così possiamo verificare se Mariuccia è in casa oppure no”.
Il progetto fu condiviso da Peppino, con la decisione di metterlo in atto la sera del lunedì successivo.
Pasquale e Gino, dopo aver salutato Peppino, raggiunsero il bar De Chiara per aggiornare degli sviluppi della situazione gli amici stretti, i quali erano stati messi al corrente della vicenda con dovizia di particolari, e per invitarli a partecipare al trambusto che si preparava per il prossimo lunedì sera.
Anche Sandrino sembrava interessato alla vicenda. Ma le sue parole a favore di quel povero giovane che tanto aveva a patire, erano intervallate da lunghi borbottii rivolti ai ragazzi che s’intromettevano nella vicenda più per divertimento e per passare il tempo e non per una disinteressata buona azione.
Peppino, la sera del lunedì, era nervoso ma nello stesso tempo fiducioso perché credeva che la finta rissa potesse chiarire la situazione.
Quando Nicola, Giovanni, Eugenio e Tonino raggiunsero il luogo dell’appuntamento, iniziò lo spettacolo.
Pasquale e Gino, davanti alla casa di Mariuccia, si misero a gridare e a dirsi parolacce, poi passarono alle vie di fatto; mentre gli amici sopraggiunti, che tentavano di separarli, facevano più cagnara di tutti.
Nel giro di pochi secondi dalle vetrine delle case a piano terra, dai balconi e dalle finestre adiacenti si affacciarono uomini e donne, mentre alcune persone e alcuni bambini uscirono in strada.
Sull’uscio della casa di Mariuccia apparve la madre, mentre in fondo alla stanza Gino intravide la sagoma di una donna.
La cagnara finì nel giro di pochi minuti tra i commenti, i borbottii e i rimproveri della gente che apostrofò quei giovani con parole poco cortesi.
L’obiettivo, comunque, era stato raggiunto. Peppino si tranquillizzò, sapendo che la sua fidanzata c’era e non era ammalata; ma capì anche che la madre le aveva vietato perfino di muoversi in casa nelle ore pomeridiane e serali.
La sera successiva Pasquale e Gino si ritrovarono nuovamente con Peppino, il quale consegnò loro un biglietto che aveva scritto per la sua Mariuccia. Sperava che in qualche maniera potessero farlo arrivare alla destinataria.
Essi si misero all’opera e, in uno dei tanti passaggi davanti alla casa, notarono Mariuccia dietro la vetrina. Pasquale le fece segno, le mostrò il biglietto e lo posò dietro la porta affinché potesse recuperarlo al momento opportuno.
Pasquale non fece in tempo ad allontanarsi di qualche metro che la madre aprì con forza la vetrina e sull’uscio della porta iniziò a inveire ad alta voce dicendo: “Ah! Ah! Voi siete quelli della baruffa di ieri sera. Allora ho capito tutto, voi siete complici di Peppino. Dite a quel signorino che si può scordare mia figlia. Mariuccia non sarà mai sua moglie fino a quando io vivrò. Ora andatevene, altrimenti chiamo i carabinieri”.
Prima di rientrare in casa, si chinò e raccolse il bigliettino che mise nella tasca del suo grembiule nero.
Nel frattempo, richiamati dalle grida della signora, alcune persone si affacciarono sull’uscio delle loro case, altre si affacciarono alle finestre o uscirono sui balconi. Alcuni scesero in strada e tra questi una signora formosa dai capelli biondi cotonati, che si rivolse alla madre di Mariuccia dicendo ad alta voce: “Bella signora, questo andirivieni davanti alle nostre case deve finire. Non è possibile che una sera sì e una no dobbiamo assistere a questo spettacolo indecoroso dove giovani e meno giovani sostano davanti alla tua casa come se fosse una casa di tolleranza”.
La madre di Mariuccia offesa rispose di botto: “E già, Filomena, tu di casini te ne intendi”.
Non ebbe il tempo di aggiungere altro che la signora bionda cotonata con estrema rapidità la assalì, schiaffeggiandola e tirandole i capelli.
Visto tutto ciò, Mariuccia uscì in strada, liberò la madre dalle grinfie di Filomena e la riportò in casa.
Dopo pochi minuti la strada restò vuota e silenziosa; e Peppino, profondamente mortificato, decise che per un po’ di tempo non si sarebbe più presentato.
Pasquale e Gino lo salutarono e si diressero al solito bar, dove raccontarono tutto quello che era successo agli amici. L’intera vicenda fu oggetto di riflessioni.
Antonio notò che i tempi stavano cambiando rapidamente e disse: “A un uomo, di circa quarant’anni, e a una donna, quasi di pari età, innamorati l’uno dell’altra, è vietato frequentarsi e sposarsi per il volere di un genitore; mentre a ragazzi della nostra età è permesso uscire, andare a ballare e fidanzarsi con ragazze giovanissime. Ecco come i tempi e la cultura stanno cambiando profondamente”.
Tutto ciò fu ascoltato anche da Sandrino, che, scuotendo la testa, commentò: “E’ vero, i tempi stanno cambiando, ma dove state voi le cose non finiscono mai bene”.
Qualche tempo dopo, Sandrino chiese a Gino: “Avete notizie di Peppino e Mariuccia?”.
Gino gli disse che non lo aveva più incontrato ma aveva saputo che, una bella mattina, Mariuccia, con indosso un impermeabile che copriva il pigiama, era uscita di casa ed era andata via con Peppino.
Una domenica pomeriggio, nella sala del biliardo del Bar non si poteva giocare perché c’era ancora l’esposizione delle paste. Lino, Michele, Pasquale, Gino, Tonino e gli altri erano seduti ai tavolini.
LINO: Mò ce vulèsse chèccóse, leggéra-leggére, pe seppundà u stomeche!
SANDRINO: Che, n’avéte magnáte ogge?…
NICOLA: Sandrí!, purtece na uandíre de paste e… cinghe bbuccurucce de cognac … “Chateu Briand”… m’arraccumanne!!!
SANDRINO: Éhe?!?… ogge tenéme ‘a sghèsse e faceme i ‘merecáne… Ècche a vvúje!… quiste so’ paste frèscke-frèscke… l’àmme fatte stammatíne… Játe bbèlle-bbèlle!
GIOVANNI: Siii!, … ma i paste d’u Bbeccarése so’ mègghje….
Risata generale
SANDRINO: ‘Stu bbabbe de uèrre! A ffà’ bbéne a vúje se fáce mmále a Criste… Cume avíte ditte che se chiáme u cognac???
NICOLA: “Chateu Briand”…
SANDRINO: A mmè me páre che n’ge stáce… mo, famme uardà bbune….
LINO Sandrí! … Sanda Lucíje!!!…U tíine propete annanz’a l’ùcchije… uhì’! allà… n’da vetríne… mo te zombe ‘mbacce!
SANDRINO: Tíne rraggijóne!…, ma ‘sti cacchje de nnúme stranire…
Sandrino porta le paste e i cognac.
PASQUALE: Sandrí…, ma mò ‘sti cognac so quille bbune???
LINO: Siii!… addummànne ‘o candeníre si u víne’ è bbune!
SANDRINO: E statte nu póche citte ! .. Aisce sèmbe cum’e merculedì ammizze a’ settemáne… Mo’, ‘nvéce de sfotte… cacciáte i denáre…
PASQUALE: A’ salúta túje!!!
Riscossi i soldi, Sandrino torna dietro al bancone
LINO: Nèh … uagliú… ch’àmma fa’ stasére??? Íje vulèsse jì a ballà… ma nen sacce ando’!
GINO: Íje agghije sendíte che Giovanne… quèlla uaglióne che ci’à presendáte a l’ata sére Nick mano fredde… festègge u complèanne… fáce diciott’anne…
LINO: E míche séme státe ‘nvetáte?!?
TONINO: E qual’éje u probbléme???… ce mbarcáme l’úse nustre…, tande si ce caccene fóre, n’zarréje ‘a príma vóte… Mò che ce pènze … quèlle, … Giovanne …, nen éje cumbágne de … Tilde e de Anne…, quilli dóje che Ggíne e Paquále tènene sott’ùcchije?…
Risata generale.
PASQUALE: Si’… uagliú!… ma míche ce putíme appresendà tutt’e ccinghe!… tanne è secúre che u padre d’a uaglióne… ce cacce a bbotte de càvece ‘ngúle… Gino!, allóre jáme íje e ttè… e appéne trasíme déme a ‘uurije a Giovanne… e po’ na uardáte fujènne-fujènne… pe vedè si ce stanne púre Tilde e Anne…
GINO: Sì!, pròpete accussì amma fa’!… però jáme quanne ‘a fèste è ggià ‘bbijáte, accussì niscijúne téne ninde da di’…
PASQUALE: ‘U díce púre!… E ‘na vóte mbarcáte, facíme sèmb’a stèssa sceneggiáte: jáme a ffa’ ‘a uurije a Giovanne, ci’addummannáme si putíme rumanì… e po’ ce mettéme a bballà p’i uaglióne nostre!
NICOLA: E’ capíte a llóre?!?… A chi tande e a chi ninde!
GINO: Che te sinde da fotte?… Ma allà nen putíme purtà manghe nu ‘rrijále… sckitte panze e presènze!!!
SANDRINO: Eh!… ‘sti dúje sfasuláte… tènene da fa’ stasére… i solete parassíte e magnapáne a trademènde…. ànne truuáte bbune andò jì a mètte tènde… a scrocche…
PASQUALE: Sandrí,… núje quanne vedíme quille dóje fegghijóle… gnuttíme sèmbe a vvacande…
SANDRINO: E ppúre stasére facéte i… bbubbazzúne!!!
Salutati gli amici, Gino e Pasquale eseguirono il piano: si presentano a casa di Giovanna e ballano con Tilde ed Anna. Finita la festa, accompagnano a casa le due ragazze, non senza darsi un altro appuntamento, e tornano soddisfatti e baldanzosi al Bar De Chiara.
LINO: Ouhè!… stéte già a qquà…. e cúme è júte… u muvmènde???
GINO: Tutt’apposte Linù!… Nescijúne ci’à ditte ninde… e ce síme púre fatte na bbèlla magnate de paníne e de ssciù… Stéve nu resorije che ére ‘a fíne u munne! Giovanne à ditte che ‘u fáce ‘a mammanonne che éje napulutáne…
PASQUALE: P’i uaglióne è júte tutt’apposte…, ce síme dáte púre a’ppundamènde. Quann’è cráje ‘i jáme a pegghijà annanze a’ scóle… È fatte!!! … è fatte!!!
SANDRINO: Ma vúje vedéte a ‘sti fràcete!… nen fanne ninde d’a matíne a’ sére… e vanne púre ‘ngemendanne i bbráve uaglijóne!!!
GINO: Sandrí!… quille so’ ddóje cajìcche… ànne ditte che ce vonne sckitte pe cumbagníje… Ma tu vide che ce càpete a nnúje!
LINO: Ma doppe che l’avéte accumpagnáte, ch’è succisse???
GINO: Viste che avéve accumenzáte a chióve, javáme múre-múre e accussì… ce síme truáte a passà sott’e bbalecúne d’u palazze d’i uaglijóne…
PASQUALE: Allóre íje agghije ditte ‘mbacce a Ggíne che si n’ze facèvene vedè arréte e’ lastre segnefecáve o che ci’avèvene ditte na sporte de fessaríje, o che se vulèvene terà a cavezètte pe capì i ‘ndenzjóne nostre…
GINO: Citte citte, ce sime ammucciáte tutt’e dúje sott’e’ bbalecúne … e doppe nu bbèlle quarte d’óre Anne m’à salutáte pe na máne. Apprisse a èsse púre Tilde è ‘sciúte fóre o’ balecóne e, citte-citte, à fatte sègne a Pasquále d’arrecurdarese de l’appundamènte de cráje e mezzijúrne annanze a’ scóle…
PASQUALE: Però mo v’éma púre accundà u fatte che c’è succisse mèntre staváme allà… Íje agghije ‘ndraviste o’ pendóne d’a stráde, cum’e n’òmbre, n’óme, pe na faccia ‘ngazzáte, che passáve e repassáve púre isse annanze a nu suttáne…
GINO: Mèndre accussì, d’a porte de quillu suttáne è scíte na vècchije che, c’u sanghe a l’ùcchije, à lucculáte: «Pèppìno… è ‘nutele che passe sèmbe a qquà ‘nnanze… T’u díche pe l’ùtema vóte:… A figghjeme n’da dènghe nè mmò e nnè mmáje… E mò da qquà te n’è jì e n’gè turnà cchiù, sennò vache a chiamà i Carabbeníre».
PASQUALE: Viste accussì, doppe che ‘a vècchije trasíje dinde e chiudíje ‘a porte, ce ‘uardamme ‘nbacce… e ci’accustamme a quillu crestiáne.
GINO: Ma ch’è succisse? Chi éje quella mammanonne? E quille respunníje sdegnáte: «Ma vúje chi síte?!? Chi ve canosce?!? Facìteve i fatta vustre».
PASQUALE: Íje ce decéje: «Núje te vulíme aijutà. Amme viste cume t’à trattáte quèlla fèmmene… Te vulíme da’ na máne» …
GINO: Se vedéve che u crestiáne se vuléve sfugà pe quacch’e vúne… e, a isse-a isse, abbiáje a ‘ccundarce u fatte: «Me chiáme Pèppíne… Mamme e pàteme so’ mmurte da tand’anne… Stènghe súle-súle cum’e nu cáne… Niscjúne me pènze… e me vularríje ‘nzurà pe truuà na cumbagníje… Agghije adducchiáte ‘a figghje de quèlla… bèllafèmmene… e da tanne me vulèsse da’ a canosce… Èsse me piáce, se chiáme Mariuccie… Vènghe tanda vóte a qquà, fazze annanze e ‘rréte, annanze e ‘rréte… Ma n’ge stà nninde da fà! ‘A mamme nn’a llènde de manghe na manére».
PASQUALE: E po’ ci’à ‘ccundáte púre che quèlla povera figghje s’ére permisse de fa sapè a’ mamme che èsse ‘u vuléve canosce a stu’ Pèppíne: «Me páre nu ‘uaglióne aggarbáte… fammìlle canosce… vine púre tu anzime pe mmè!». Nen l’avèsse máje ditte: da tanne ‘a fegghijóle nn’à putúte ascì cchiù da quèlla cáse.
GINO: E a mamme sèmbe a ddi’: «Sta figghjia míje… andò véde e andò céche… Ma l’è viste bbune??? Éje vasce, ciutte, scurciáte, e téne púre i cosse a taralle …’nzomme stáce propete ‘ndèrre ch’i róte! E po’, si proprie ‘u vúje sapè, íje p’a mamme de quille, tand’anne fà… m’avíja pegghijá a capille»…’Nzomme… n’gè státe vèrse!
PASQUALE: E’ ‘nùtele,… quanne na mamme nen vóle, n’ge stanne nnè Ssande e nnè Madonne. Nu jurne Pèppíne ce mannáje na ‘uandire de sfugliatèlle; n’atu jurne bbèlli quatte fíche ‘nda nu panáre. Ma ‘a sgribbije ascéve sèmb’èsse annanz’à porte, e – usì! – se n’ascéve che cèrte paróle che … Criste ‘u sápe e ‘a Madonne ‘u ‘cconde!
GINO: … A qquà me páre che n’ge síme spiègáte bbunne. ‘A figghija míje s’àdda spusà, ma no mmò, … e nnò pe ttè!… E’ mègghje che te fáje capáce’na vóte e pe sèmbe!!!
PASQUALE: E quillu povere Pèppíne: «Ma íje e Mariuccie ce vulíme bbéne»… E quèlle: «Si’!…, mo m’é propete sfastedjáte!…Vide de jeretinne ch’i cosse túje, sennò ogge fáje na brutta fíne!».
GINO: ‘Nzomme quillu puurìlle s’avía fa’ sckitte capáce e quanne s’accustáve da quilli vanne venéve púre beffijáte pecchè ‘a vècchije abbijáve a lucculà: «Annanze a’ cása míje stáce u mbusse e chi passe se rombe u musse!».
PASQUALE: Manghe li cáne a chi ce càpete sotte!… E’ propete luuére u fatte: Sand’Anne ‘a sògre nn’a vuléve manghe de zùcchere… Cume stanne i fatte, mò ‘a fegghijóle m’bóte mètte cchiù pide fóre ‘a porte chè sùbbete ‘a mamme se n’addóne!… Sckitte na vóte, n’da cchijse de San Frangische, Pèppíne è rrijescíte a passarle nu bbeglijettíne…
GINO: Ci’àgghje ditte: «Pèppí, quille è megghjie abbusckarese na préte n’facce, e nno avè a che ce fa che na fèmmene de quèlle». Ma isse angóre n’ze cunvinge… e me páre che téne na brutta ‘ndenzióne.
PASQUALE: Allóre íje ci’àgghje ditte: «Pèppí, n’de pegghjanne cchiù veléne… mo’ ce penzáme núje!»… e me so’ fatte di’ u punde precíse andò àbbete Mariucce.
GINO: Púre íje l’agghje cunzuláte decènne che ‘u parláve cum’e nu fráte… e che ci’à vedèmme núje…
PASQUALE: Tande quèlle a nnúje n’ge canosce… e púre si ce vúje da’ quacche bbeglijettíne… ce penzáme núje… «Oh! – se sfugáje Pèppíne – … me sènde ggià n’at’e ttande!!!». Allóre ce vedíme a qquà cráij’e sére ‘mbacc’è sètte!
SANDRINO: Quille addà èsse propete nu bbráve figghije. Però, uagliú,… sópe a ‘sti cóse n’ze pazzéje… faciteve i fatta vustre… pecchè ‘mmane a vúje fenèsce sèmbe a taralluzze e vvíne!…
GINO: Sandrí!, ma cum’éje u fatta túje?… pe na vóte che facíme i bbúne… àmma passà púre pe malamènde!… Núje stéme facènne avaramènde e n’ge stíme pegghijanne manghe na pezzecáte! Mò… nen jènne menanne u bbanne!
PASQUALE: Sì… a qquà ci’avéte da’ na máne púre vúje!… Dumáne e ssére ce ne jáme tutte annanze a’ cáse de ‘sta Mariuccie… avíte capíte ando’ éje?!? … e accumenzáme a ffa’ nu póche de cummèdije… Gino, agghje penzáte…, íje e ttè facíme a vvedè che stíme facenne a sciarre… e vedíme si sta’ mujíne face arrebbellà i crestijáne… e púre a Mariuccie, che tutt’a mamme…
GINO: Sì, sì!, àmma arrebbellà ‘a stráde!
La sera dopo i fatti andarono proprio così… o quasi … e, al termine, i giovani si recarono, come al solito, al Bar De Chiara a raccontare l’accaduto.
SANDRINO: … Già m’u ‘mmàggene cume l’avíte ‘nguaijáte de cchìù a quillu povere uaglióne!…
NICOLA: Statte spenzaráte!… è júte tutte bbune! Pasquá, deccille tu…
PASQUALE: Doppe che séme júte a salutà a Tilde e Anne, àmme ‘ngappáte a Pèppíne…
GINO: … che na bbèlla tulètta nóve … paréve u púpe ‘Ziccarde!…
PASQUALE: … e quillu maccaróne ci’à ddáte u bbeglijettíne p’a ‘nnamuráta súje…
LINO:… a quillu punde íje, Necóle, Mechéle e Toníne ce séme piazzate annanze ‘a case de Mariuccie e… amm’abbijáte l’òpere ‘i Strazzulle…
SANDRINO: M’u pozze mmaggenà…
NICOLA: I fatte sonne júte accussì:
GINO: «Stu nfáme… ce séme spartíte u sunne… e mo váje decènne che songhe nu strunze… E bbráve… u vóve ngúre a l’àsene chernúte!»
PASQUALE: «Ijà!, mo te mètte ‘a fóca ‘nganne! Si díce n’ata paróle… te fazze zumbà i dinde da ‘mmocche!».
GINO: «’Stu sorte de fite… vin’a qquà, vì!… chè che nu sckaffe te ‘mbále pe l’àrije! E’ capíte o no che quanne parle pe mmè… t’è príma sciaqquà ‘a vocche?!?».
PASQUALE: «A chii?!?… ‘nfáme e tragenatóre… Mo t’e’ luà sckitte d’anànze… sennò te lasse murte ‘ndèrre!!!».
GINO: «‘Nfáme de chestúre a mmè!?!… ‘Stu sorte de malebuàtte!».
NICOLA: Sandrí… è luuére, facèvene propete brutte!!!… Sckìtte che ce pènze… A quillu punde púre núje ce síme misse a lucculà…è ppe nu sì è ppe nno i ggènde ànn’abbijáte a ‘scì ammizz’a víja nóve… chi arréte e’ lastre, chi affacciáte a’ fenèstre, chi sop’è bbalecúne…
SANDRINO: E cum’è júte a fenèsce?
LINO: A nu bbèlle mumènde so’ sciúte fóre púre Mariuccie e a mamme…
PASQUALE: E íje, ùcchje e ‘nnand’ùcchije me songhe accustáte a Mariuccie e ci’agghje passáte u bbeglijettíne…
GINO: Ma quèlla stuppaglióse d’a mamme se n’è ‘ddunáte e à ‘ccumenzáte púr’èsse a lucculà ‘mbacce a’ figghje: «T’avéve ditte che n’avíve asci’!… u penzíre m’u decéve!… E vúje, desgrazijáte!, ‘a vulítete fenèsce pe ‘sta chiazzáte?!? V’à mannáte quillu ciaciàcche, è luére?!?… Ma… se nen ve ne játe juste mò da qquà … l’ùteme pizze adda èsse ‘a rècchije! … E decetacille a quillu nnummalènde che a figghijeme s’a póte scurdà… Mò jatevinne sennò chiáme púre i ‘uardije!!!».
PASQUALE: E a quillu punde íje ci’agghjie respuste: «Uèh!!!… mammanò!… nne lucculanne che a qquà ne stéme sópe e’ Múre!» Ma nen feníje da di’ quilli paróle che Mariucce se mettíje a chiagne e respunníje a’ mamme: «Mo che ci’accocchje ‘stu fatte… sèmbe íje pe sotte ce váche?!?»…
LINO: Mèndre accussì, s’affacciáje a na fenèstre na crestejáne e abbiáje a sbraità ‘mbacce a’ mamme de Mariucce cum’e na ciucce de zìnghere…
LA DONNA: «Nè cummá… ‘sta mujíne a qquà s’adda púra fenèsce na bbóna vóte! E che àmme fatte a qquà nnande, na cáse d’appundamènde?!?».
LA MAMMA: «Uèh… bèllafè!, ‘u sapíme tutte quande… che tu de casíne te ne ‘ndinde… e assáje púre. Che ci’avèssema fa’ venì a ‘mmènde i spèzzije andíche?!?»…
LA DONNA: «Chèssò?!?… a qquà si stáce vúne che s’àdda mètte a rescióre si propete tu! E víde de farle ammaretà a quèlla mosce de figghijete… che n’atu fèsse nn’u trúve»…
LA MAMMA: «Uèh!, sceláta-scelá! quanne parle d’a figghija míje sciaqquete ‘a vocche c’a medecíne… sennò te fazze muzzucà a ndò ’nge arríve!».
TONINO: Sandrí… a mamme de Mariuccie n’facacíje a ttimbe a di’ ‘sti paróle che quèlla fèmmene se menáje ammizz’a stráde e n’atu póche i capille de quèll’àvete si’i facéve venì ‘mmáne p’a ragge.
LINO: Tramènde Mariuccie, che n’zapéve andò s’éva sparte annànze, se teráve ‘a mamme pe nu vrazze pe farle trasì dinde, e n’atu poche ci’u stuccáve, e ‘a mamme lucculáve: «Lassàteme,… che ce’àgghia fa’ sende i celìzzije!…. Anè!, mo se mèttene tutte quande ‘a cammísa longhe!… Che ce ne fusseme scurdáte chi si’ ttu?!?… a príma bèllafèmmene de Lucére!».
LA DONNA: «Che te puzza strafucà!… Parle propete èsse, parle, che o’ maríte ci’à misse cchjiù corne de na cèste de ciammarúche!»…
LA MAMMA: «‘Sta gnogne e trazzelóse!… Quèlle éje ‘a sorta túje!»….
MARIUCCIA: «Mà… trasíme dinde…. nn’a penzanne … trasíme dinde!» …
PASQUALE: Sandrí, m’è créde!, n’da na vutáta d’ùcchije p’a stráde n’ge stéve cchiù n’ànema víve!
GINO: … Pèppíne, che s’ére ammucciáte, ‘nzapéve cchiù ando’ mètte ‘a facce e decéve cum’e nu bbabbe: «Madonne e che fúche che avéte appecciáte!… Jatevinne, jatevinne… e chi téne cchiù facce mo a presendarese a qquà!… jatevinne… m’avéte arruunáte!».
PASQUALE: … E íje déceve, n’gápe a mmè: mo’ vide che a qquà fenèsce a mùzzeche!
GINO: E accussì… vàtte lu friche!… agghije sckaffáte nu lucchele: «Curre Pasquá… curre!»…
SANDRINO: E’ viste che tenéve rraggióne íje!… Andò ve mettéte vúje ammizze… fenèsce sèmbe a fetendaríje u fatte! Máre a chi cade e cèrche aijúte da vúje… N’zápe quille che àdda passà!!!
LINO: … Pèrò stavóte ci’àmme misse tutt’a vulundà…
PASQUALE: Che ne sapèmme núje che se jèvene a ‘ngundrà dóje àneme nèrve!…Ma quèlle ‘a sfertúne ‘a teníme appezzecáte ‘ngúle!
Continua…
Il prossimo capitolo sarà pubblicato martedì prossimo.
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