Le donne lucerine di una volta si svegliavano prestissimo la mattina per preparare, con un rituale quasi religioso, la pasta fatta in casa ( trucchjele, cicatìlle, lagane, mabricúle), indossando, per una sorta d’igiene, sia il grembiule (u grembiale) che il fazzoletto bianco (‘a mèzza scolle) sul capo per raccogliere i capelli.
Mostrando le loro grandi doti, dopo essersi fatto il segno della croce , iniziavano, con le mani a pugno, a impastare sulla la spianatoia di legno (u tavelìre), attrezzo di cucina munito di tre sponde di legno alte fino a 10 cm, ai due lati e sul fondo e posto su due sedie. Altri elementi indispensabili erano l’acqua, un mattarello (u laghenatúre), il sale (u sale), la semola, la farina, passate al setaccio (‘a setèlle), un coltello (‘a sfèrre), e, soprattutto “olio di gomito”.
Le donne lucerine ammucchiavano semola o farina al centro d’u tavelíre, facendone un cratere, versavano acqua a temperatura ambiente e impastavano, fino a che non si creava un composto omogeneo, che veniva, quindi lavorato. U tavelíre era l’attrezzo da cucina indispensabile per fare anche il pane, i taralli scaldatelli (i scavedatìlle), i taralli con il vino (i mbreachìlle), le pettole (i pettèle) ed i dolci caratteristici lucerini, le cartellate (i crustele), le mandorle atterrate (i menèle atterrate), i poperati (i puperate), i calzoncelli (i cavezungìlle).
Oggi, anche se quasi soppianta dalle paste e dai dolci della produzione industriale, resiste ancora salda la tradizione della pasta e dei dolci fatti in casa e u tavelíre, presente tuttora in molte famiglie lucerine, continua a rappresentare qualità e tradizione.