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26 Aprile 2024
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Dialettando – “A Lucera si dice”. Sono ben 11 i modi diversi di dire “ti dò uno schiaffo” a Lucera

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Lino Montanaro“Dialettando” , la rubrica di Lino Montanaro propone tutti i giovedì proverbi e modi di dire lucerini, tramandati di generazione in generazione, per non dimenticare le origini della nostra amata Lucera.

– A Lucera per indicare lo schiaffo assestato sul viso con mano aperta e distesa , si dice
BBEFFETTÓNE

– A Lucera per indicare lo schiaffo che colpisce le labbra del malcapitato, si dice
LECCAMÚSSE

– A Lucera per indicare lo schiaffo assestato al volto e segnatamente alla zona mascellare si dice
MARFÁLE

– A Lucera per indicare lo schiaffo che stordisce chi lo riceve si dice
PAPÁGGNE

– A Lucera per indicare lo schiaffo che viene inferto alla nuca si dice
SCUPPULÓNE

– A Lucera per indicare lo schiaffo assestato vicino alle orecchie si dice
RECCHJÁLE

– A Lucera per indicare il buffetto che si assesta nella parte bassa del volto, in prossimità della bocca, che più che far male, innervosisce la vittima, si dice “ STRUSSCIAMÚSSE

– A Lucera per indicare lo schiaffo assestato con il dorso della mano si dice
‘NA MAPPÍNE ND’A FÁCCE

– A Lucera per indicare il colpo secco e ben assestato dato in testa con la nocca delle dita, si dice
SCAROCCHJE

– A Lucera per indicare il ceffone che in realtà sono due schiaffi, perché il primo viene assestato con il palmo della mano su una guancia, mentre l’altro, appena dopo, viene assestato con il dorso della mano sull’altra guancia, si dice “ VÁJE E VVÌNE

– A Lucera per indicare lo schiaffo ben assestato con tutte e cinque le dita, si dice “ SCKAFFÓNE

REGOLE DI PRONUNCIA

Il dialetto lucerino, come del resto ogni dialetto, ha le sue ben precise e non sempre semplici regole di pronuncia. Tutto questo, però, genera inevitabilmente l’esigenza di rispettare queste regole non solo nel parlare, ma anche e soprattutto nello scrivere in dialetto lucerino. Considerato che il fine di questa rubrica è proprio quello di tener vivo e diffondere il nostro dialetto, offrendo così a tutti, lucerini e non, la possibilità di avvicinarvisi e comprenderlo quanto più possibile, si ritiene di fare cosa giusta nel riepilogare brevemente alcune regole semplici ma essenziali di pronuncia, e quindi di scrittura dialettale, suggerite dall’amico Massimiliano Monaco.

1) La vocale “e” senza accento è sempre muta e pertanto non si pronuncia (spandecà), tranne quando funge da congiunzione o particella pronominale (e, che); negli altri casi, ossia quando la si deve pronunciare, essa è infatti sempre accentata (sciulutèzze, ‘a strètte de Ciacianèlle).

2) L’accento grave sulle vocali “à, è, ì, ò, ù” va letto con un suono aperto (àreve, èreve, jìneme, sòrete, basciù), mentre l’accento acuto “á, é, í, ó, ú” è utilizzato per contraddistinguere le moltissime vocali che nella nostra lingua dialettale hanno un suono molto chiuso (‘a cucchiáre, ‘a néve, u rebbullíte, u vóve, síme júte), e che tuttavia non vanno confuse con una e muta (u delóre, u veléne, ‘u sapéve, Lucére).

3) Il trigramma “sck” richiede la pronuncia alla napoletana (‘a sckafaróje, ‘a sckanáte).

4) Per quanto riguarda le consonanti di natura affine “c-g, d-t, p-b, s-z” è stata adottata la grafia più vicina alla pronuncia popolare (Andonije, Cungètte, zumbà) quella, per intenderci, punibile con la matita blu nei compiti in classe.

5) Per rafforzare il suono iniziale di alcuni termini, si rende necessario raddoppiare la consonante iniziale (pe bbèlle vedè, a bbune-a bbune, nn’è cósa túje) o, nel caso di vocale iniziale, accentarla (àcede, ùcchije).

6) Infine, la caduta di una consonante o di una vocale viene sempre indicata da un apostrofo (Antonietta: ‘Ndunètte; l’orologio a pendolo: ‘a ‘llorge; nel vicolo: ‘nda strètte).

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