“Dialettando” , la rubrica di Lino Montanaro propone tutti i giovedì proverbi e modi di dire lucerini, tramandati di generazione in generazione, per non dimenticare le origini della nostra amata Lucera.
Ci sono espressioni, esclamazioni e modi di dire, di cui il nostro dialetto è ricchissimo, correlate da un repertorio formato da parole, mimica facciale e gestuale, cadenza e tono di voce, che etichettavano, in modo particolare, il lucerino verace.
Eccone alcuni esempi:
• IGGHJÀ! – IJÀ! – SANDA MARÍJE! = Sono espressioni che esprimono sentimento, per lo più positivo, ma anche negativo, di meraviglia o d’impressione
• MANNAGGE A L’ÀNEME DE CHI TE MMÚRTE E DI CHI TE STRAMÚRTE = Imprecazione contro i defunti dell’interlocutore, usata per mandare a quel paese non solo la persona a cui è rivolta, ma anche i suoi parenti, che crea un effetto di progressione che potenzia l’espressività del discorso
• QUAND’È VÉRE SANDA MARÍJE! = È un’espressione di giuramento sulla quale non si può non credere
• ALLASCHE, ALLASCHE = Modo di dire per indicare che in certe situazioni bisogna mettere una certa distanza fra sé e gli altri (coronavirus)
• ASSEMÈGGHJE U MÚSSE DE PEPPINE U CAFÓNE = Si è trattato di un progetto malriuscito
• QUEST’ÉJE ‘A ZÍTE E SSABBÈLLE SE CHIAME! = È una locuzione usata per sottolineare il comportamento di chi fa l’uso dell’astuzia per non assumersi la propria responsabilità
• ‘A FATTE ‘A FÍNE SSCIALLÈTTE! = Modo di dire per indicare che una persona ha fatto una brutta fine
• ASSEMÈGGHJE A LLUVEÈLLA GALLE = Modo di dire riferito a una donna che, per sua natura, va in cerca sempre della lite, spesso anche provocandola
• TE FAZZE FÀ TTRÈ GGÌRE ATTURN’A MADONNE I NGURNATE! = Espressione usata per incutere timore all’interlocutore, minacciandolo di gravi conseguenze
• ASSEMÈGGHJE U MAGNÀ D’U PATRE MAJÈSTRE = Locuzione riferita a coloro che, per abitudine, mangiano pochissimo
• A MÚLE DE MENZEGNÓRE, DE CAPE A’ PORTE E DE CÚLE A’ MANGIATÓRE = E’ un modo di dire che viene utilizzato per indicare quelle persone che apparentemente fanno un vita ritirata ma sono dotate di un grande spirito di osservazione, non gli sfugge nulla e sono al corrente di tutto che accade in giro
• È SÈMBE MENGERULLE SONGHE! = Espressione usata per indicare chi è disposto a pagare le conseguenze dei propri comportamenti, facendo, però, i propri comodi
• CHE, AMMA FÀ L’ÓPERE I STRAZZÚLLE? = Modo di dire per indicare che non è il caso di dare spettacolo, senza un briciolo di dignità, al punto da diventare oggetto delle dicerie della gente
• POVER’A MMÈ DECÍJE PRESÚTTE QUANNE ARREVAJE A L’ÚSSE! = L’amara considerazione di chi sperpera la ricchezza fino a consumarla tutta
• M’ASSEMÈGGHJE U VALLE BBUVÍ = Locuzione usata per indicare un luogo molto pericoloso Nb: U valle bbuvì = La valle di Bovino, infestata da bande di briganti
• L ANNE PEGGHJATE PE ZZICA-ZICHE = Espressione usata per indicare lo scarso status sociale di una persona.
REGOLE DI PRONUNCIA
Il dialetto lucerino, come del resto ogni dialetto, ha le sue ben precise e non sempre semplici regole di pronuncia. Tutto questo, però, genera inevitabilmente l’esigenza di rispettare queste regole non solo nel parlare, ma anche e soprattutto nello scrivere in dialetto lucerino. Considerato che il fine di questa rubrica è proprio quello di tener vivo e diffondere il nostro dialetto, offrendo così a tutti, lucerini e non, la possibilità di avvicinarvisi e comprenderlo quanto più possibile, si ritiene di fare cosa giusta nel riepilogare brevemente alcune regole semplici ma essenziali di pronuncia, e quindi di scrittura dialettale, suggerite dall’amico Massimiliano Monaco.
1) La vocale “e” senza accento è sempre muta e pertanto non si pronuncia (spandecà), tranne quando funge da congiunzione o particella pronominale (e, che); negli altri casi, ossia quando la si deve pronunciare, essa è infatti sempre accentata (sciulutèzze, ‘a strètte de Ciacianèlle).
2) L’accento grave sulle vocali “à, è, ì, ò, ù” va letto con un suono aperto (àreve, èreve, jìneme, sòrete, basciù), mentre l’accento acuto “á, é, í, ó, ú” è utilizzato per contraddistinguere le moltissime vocali che nella nostra lingua dialettale hanno un suono molto chiuso (‘a cucchiáre, ‘a néve, u rebbullíte, u vóve, síme júte), e che tuttavia non vanno confuse con una e muta (u delóre, u veléne, ‘u sapéve, Lucére).
3) Il trigramma “sck” richiede la pronuncia alla napoletana (‘a sckafaróje, ‘a sckanáte).
4) Per quanto riguarda le consonanti di natura affine “c-g, d-t, p-b, s-z” è stata adottata la grafia più vicina alla pronuncia popolare (Andonije, Cungètte, zumbà) quella, per intenderci, punibile con la matita blu nei compiti in classe.
5) Per rafforzare il suono iniziale di alcuni termini, si rende necessario raddoppiare la consonante iniziale (pe bbèlle vedè, a bbune-a bbune, nn’è cósa túje) o, nel caso di vocale iniziale, accentarla (àcede, ùcchije).
6) Infine, la caduta di una consonante o di una vocale viene sempre indicata da un apostrofo (Antonietta: ‘Ndunètte; l’orologio a pendolo: ‘a ‘llorge; nel vicolo: ‘nda strètte).
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